di Silvano Veronese |

COMUNICATO STAMPA

La questione salariale è diventata un punto centrale dell’agenda non solo sociale, ma anche politica del Paese e merita dunque una valutazione oggettiva  della situazione anche per saper indicare sul “dove” e sul come” intervenire. Questione non piu’ rinviabile per evitare il rischio di un autunno “esplosivo”.

Martedì prossimo, infatti, a Palazzo Chigi il Governo incontrerà le parti sociali alle quali – come abbiamo appreso da una intervista alla “Stampa” del 7 luglio del Ministro del Lavoro Orlando – saranno  sottoposte alcune proposte che riguarderebbero sia il basso livello delle retribuzioni, sia la questione del “lavoro povero”, sia il rinnovo dei contatti ai quali il Ministro del Lavoro intenderebbe  affidare il compito di fissare il valore del “salario minimo” come indicato dalla proposta di direttiva della Commissione Europea per i Paesi – come il nostro ed i “nordici”  – ove è presente una consolidata ed estesa tradizione contrattuale a livello nazionale.

Si tratta di affrontare le problematiche in un contesto complessivo rifuggendo da slogans, da interpretazioni sbagliate di una realtà moto articolata, di difesa di “bandierine”.

Si legge,  ad esempio, sempre più frequentemente affermazioni tipo “L’Italia fanalino di coda in materia di salari (i più bassi) in Europa” tenendo presente che quando si parla – in termini di statistiche e di comparazioni in materia retributiva  fra i vari Paesi della U.E. – si fa riferimento al salario medio  dei vari Paesi distinguendo tra  quelli che appartengono all’intera Unione e quelli (in numero inferiore) che appartengono al sistema monetario unitario (Eurozona).

Che i salari e gli stipendi italiani fossero mediamente piu’ bassi degli altri grandi Paesi europei (Spagna esclusa) è una dato negativo purtroppo noto da tempo ma non risponde alla realtà che siano i più bassi dell’intera U.E. e neppure dell’ Eurozona.

In testa alla classifica vi è il Lussemburgo con un salario annuale MEDIO (al netto delle trattenute fiscali e sociali) di 41.239  euro, seguono i Paesi Bassi con 39.089 euro, poi la Danimarca, Finlandia, Germania (31.831 €), Belgio (29.389 €), Francia (quest’ultima con 27.768 euro). La media U.E. è di € 24.005.

Viene quindi, sotto la media europea, l’Italia con 21.463 euro seguita da Spagna, Cipro e Malta, Grecia e Portogallo.  E poi a seguire con valori assai inferiori altri undici Paesi appartenenti alla U.E. Buone ultime Romania (8.495 €) e Bulgaria (6.385,89 €). Il Lussemburgo è preceduto in testa alla classifica dalla Norvergia con € 42.433, ma questo Paese non aderisce – come è noto –  alla Unione Europea, alla pari di Svizzera e Islanda il cui salario medio annuale è più o meno come quello norvegese.

Non siamo perciò  all’ultimo posto, ma è doveroso sottolineare che i Paesi che ci seguono, dopo i cinque che abbiamo elencato in precedenza, appartengono tutti al blocco ex-sovietico, le cui retribuzioni – al momento dello scioglimento del Patto di Varsavia – erano molte basse dato un sistema economico bloccato esistente all’epoca in quei Paesi e basse  sono rimaste anche se hanno migliorato in %, rispetto al dato di allora, molto più dei Paesi dell’Europa occidentale e dell’Italia che è, persino, regredita come documentato dall’OCSE.

Ma un Paese, come l’Italia (appartenente alle sette economie di mercato più importanti del mondo), con il terzo PIL della U.E., secondo esportatore europeo  dopo la Germania e terzo finanziatore attivo dell’Unione non può relegare le retribuzioni dei suoi lavoratori  quasi in coda tra le situazioni salariali della gran parte dei  Paesi dell’Eurozona (sotto la media !!) ed in particolare dei quattro maggiori Paesi della U.E. stessa.

Nell’Eurozona il salario medio lordo annuale è pari a 37.400 euro , in Italia è a 29.440 euro, mentre in Germania è di 44.468, in Francia  è di 40.170, in Spagna (che ci segue) è di 27.404. Da rilevare che questi dati, censiti nel 2020, vedono allargarsi il divario in peggio per la situazione italiana rispetto a quella degli altri tre Paesi citati e della stessa media registrata tra i Paesi dell’Eurozona.

Certamente in Germania ed in Francia il costo della vita è più alto che in Italia, ma il divario è sensibile ed in ogni caso l’Italia – a differenza degli altri Paesi – non ha recuperato i livelli esistenti prima dello scoppio dell’epidemia COVID-19.

Le cause che spiegano questo fenomeno negativo, dato che la maggioranza delle categorie dell’industria, terziario e turismo, servizi, esercizi pubblici e pubblico impiego hanno rinnovato (a volte in ritardo) in questi anni i loro contratti (anche sul piano salariale) sono da ricercarsi in particolare nelle  condizioni del mercato del lavoro.

Abbiamo, sempre per fare una comparazione con i restanti Paesi, un alta % di basse qualificazioni professionali e quindi una maggiore concentrazione – rispetto agli altri Paesi – di lavoratori e lavoratrici collocati nelle qualifiche più basse e perciò a più bassa retribuzione ( Italia 13 %, eurozona 9,9 %, Francia 9,8% e Germania 7,7%, solo la Spagna ci supera di poco). Poiché le comparazioni delle statistiche riguardano i salari/stipendi medi è evidente che,  se anche le retribuzioni contrattuali dei vari Paesi presi in esame  fossero più’ o meno uguali a livello della stessa mansione/qualifica,  la maggiore consistenza in Italia del numero  di basse qualifiche abbassa anche il  valore medio delle retribuzioni annuali del nostro Paese.

Il fenomeno – per me non virtuoso – di un apparato produttivo nazionale di piccole e micro imprese a bassa innovazione tecnologica (salvo poche eccellenze) produce anche una più ridotta presenza rispetto ad altri grandi Paesi  di mansioni e qualifiche elevate inquadrabili  nella parte alta dell’inquadramento professionale e retributivo.

Abbiamo poi in Italia un’alta percentuale di occupati con contratti a “tempo parziale” non volontario, abbiamo una più alta % – rispetto a questi Paesi – di occupati “a termine”, che quindi in ragione d’anno non lavorano e quindi non percepiscono retribuzione con continuità  per tutti i mesi correnti. Il fenomeno del ricorso in eccesso del lavoro “flessibile” o “precario” – anche fuori da circostanze organizzative aziendali  che lo richiederebbero –  è un dato tipicamente italiano che abbassa notevolmente il valore medio del  salario annuale nazionale.  E’ questa la ragione per cui Vi sono molti lavoratori e lavoratrici che denunciano retribuzioni mensili di 650 euro mensili, misura retributiva non prevista da nessun contratto e che la proposta del Ministro Orlando di ridurre il “cuneo fiscale” non migliorerebbe di molto il guadagno di questi lavoratori.

Altrettanto stravagante l’altra proposta ministeriale, oltreché non prevista dalla legge, di “monetizzare” (cioè il non godimento) di ferie e festività per incrementare questi bassi salari.

Si tratta invece di operare un drastico taglio, sia attraverso la legge sia tramite i CCNL, al massiccio ricorso a questi rapporti di lavoro “precari” e non continuativi, riportando il loro uso alle esigenze di straordinarietà e di eccezionalità.

Questi i dati impressionanti:

Germania Occupati a Termine11,4 %A Tempo Parziale 7,1 %
Francia 15 %28,3 %
Spagna   25,2 % 53,4 %
Italia 16   %    62,8 %
Media Eurozona  15,3 %23,3  %

Da notare che molte di queste prestazioni a “tempo parziale”, in un numero così elevato nel nostro Paese, in particolare in alcuni settori a debole presenza sindacale come nei servizi alla persona, in agricoltura, turismo e pulizia – sono in parte retribuite “in nero” o sono “sottopagati” e pertanto per “nascondere” questa evasione contrattuale vengono fatte risultare a “tempo parziale”. 

Vi sono poi, in giro per l’Italia, vari contratti nazionali “farlocchi” o “pirata” sottoscritti da organizzazioni datoriali e sindacali altrettanto “farlocche” prive di rappresentatività reale che hanno determinato condizioni normative e salariali “in pejus” rispetto ai contratti nazionali sottoscritti dalle organizzazioni tradizionali e maggiormente rappresentative. Certamente essi riguardano un numero molto limitato di lavoratori e micro imprese, ma concorrono anch’esse a diminuire il valore di un salario medio annuale nazionale, oltre a rappresentare un fenomeno negativo che dovrebbe essere estirpato da una legge che estenda il riconoscimento “erga omnes” ai CCNL negoziati e sottoscritti dalle organizzazioni effettivamente rappresentative, come avviene nel Pubblico Impiego.

Abbiamo parlato di salario lordo e salario netto e balza in evidenza come il CUNEO FISCALE (vale a dire le trattenute sulla retribuzione da parte del fisco) sia elevato, ma non è un problema solo italiano in quanto esso incide per il 27% medio in Italia, per il 26,8 % in Francia, per il 28% in Germania, per il 22,4 % in Spagna e per il 35 % medio nell’Euro zona (quest’ultimo dato dipende anche dalle forti tassazioni che esistono in Belgio, nei Paesi Bassi e nei Paesi nordici.

Ma la richiesta, che viene avanzata da alcune parti nel nostro Paese e fatta propria dal Ministro del Lavoro, è più che giustificata per il fatto che le trattenute a carico del lavoro (pur uguali in % con gli altri Paesi summenzionati) operano su una massa salariale media inferiore a quella degli altri Paesi e, soprattutto, riguardano una platea di contribuenti che non possono sfuggire al Fisco, essendo tassati alla fonte, mentre il Paese soffre una evasione fiscale pari al 32 % della ricchezza prodotta!

L’intervento fiscale non risolve compiutamente gli squilibri derivanti dall’eccesso al ricorso del lavoro flessibile e precario che, come abbiamo tentato di spiegare sopra, è la primaria causa del minor valore del salario medio annuale italiano unitamente al fenomeno (perseguibile e punibile) di lavori “sottopagati” in spregio al CCNL di settore sia come scorretta applicazione dell’inquadramento professionale previsto dai contratti rispetto alle mansioni effettivamente svolte sia per una applicazione, altrettanto scorretta, di un trattamento previsto da un contratto “farlocco”.

E, tanto meno, questo intervento sul “cuneo fiscale” puo’ sostituire il doveroso e puntuale rinnovo dei contratti di lavoro alla loro scadenza. Quelli già scaduti riguardano ben 6,8 milioni di lavoratori. Il Governo impegni le parti agenti contrattuali di operare in tal senso, anche – se del caso –  collegando i sostegni finanziari alle imprese per gli investimenti di sviluppo all’impegno per il rinnovo dei CCNL scaduti o in scadenza. Ve ne sono – tra questi – anche nel grande settore della Pubblica Amministrazione centrale e degli Enti locali. Lo Stato – tramite il Governo – nella sua qualità di datore di lavoro dia un esempio virtuoso agli Imprenditori privati.

Tra i piu’ colpiti sul piano salariale, a causa degli squilibri del mercato del lavoro italiano, vi sono i giovani fino anche a 30 anni di età, anche se le statistiche di Eurostat riguardano una fascia tra i 18 e i 24 anni. Anche in questo caso il salario medio annuale di un nostro  giovane si colloca sotto la media dell’Eurozona per circa 1.000 euro. Peggio di noi la Spagna fra i grandi Paesi.

In Italia, la retribuzione media annuale di un giovane sotto i 30 anni è pari  al 17,2 % in meno della media salariale riferita al totale dei lavoratori con una disparità di genere, ancora una volta a sfavore delle donne. Troppi –anche in questo caso – sono i ricorsi agli stages, ai tirocini, ai “contratti di formazione-lavoro”, all’apprendistato che è stato portato nel recente passato fino a 30 anni di età. Tutte tipologie di rapporti di lavoro atipici che dietro alla scusa del lavoro come addestramento professionale sono una forma di ulteriore sfruttamento a basso costo salariale di giovani utilizzati a tutti gli effetti nei processi produttivi.

Come si vede si tratta di un complesso di problemi che non possono essere affrontati con scorciatoie, ma  solo con il rafforzamento del ruolo e del potere di contrattazione sindacale potranno essere risolti anche attraverso una revisione appropriata delle misure più devastanti impresse dal Jobs Act, il quale senza risolvere -com’era nelle intenzioni dei suoi  autori governativi- il problema dell’allargamento delle occasioni ed opportunità di lavoro ha invece allargato a dismisura l’area della precarietà e con essa l’abbassamento  del valore medio annuale delle retribuzioni.