di Renato Costanzo Gatti |
Introduzione
Le problematiche, che presento nel seguito di questo scritto, partono dall’esigenza di trovare, tra alternative che ci si pongono nel momento storicamente determinato, quelle che riteniamo essere le più confacenti alla nostra cultura.
Quando parlo di nostra cultura intendo la cultura socialista, madre di tutti i vari rivoli in cui essa si è articolata e dispersa, e propone un lento processo di ricomposizione frutto del contributo di ciascun rivolo, ricomposizione basata, più che sul voto a maggioranza, sulla critica dialettica che ricomponendo la discrasia tra teoria e realtà raggiunge con il vigore della ragione una sintesi hegeliana madre dell’illuminismo europeo.
Quando parlo di momento storicamente determinato, intendo il rifiuto dell’accettazione dell’esistente come situazione “naturale”, propendendo quindi per la consapevolezza che la situazione in cui ci troviamo è il frutto di conflitti verificatisi nel passato, che si sono sviluppati sino alla situazione attuale, e che quindi è figlia di uno scontro di diversi interessi confliggenti che hanno visto prevalere una delle componenti, ma che perciò non hanno il carisma della naturalezza bensì la temporalità dello sviluppo storico. Ecco che allora la nostra critica non può essere asettica rispetto all’esistente ma, riandando all’Ausgangspunkt, inserirsi con una critica dialettica che comprendendo il passato, costruisce il futuro.
Elenchero’ quindi diverse alternative, su cui pronunciarci, partendo dalla situazione attuale, che prendiamo come dato di fatto, espressione degli equilibri esistenti fra i diversi interessi confliggenti, e sulle quali esercitare la nostra capacità critica e dialettica finalizzata a trovare la risposta positiva migliore, non solo legata alla contingenza storica, ma alla costruzione di un mondo consono alla nostra cultura.
ALTERNATIVA INTERNAZIONALE
Lo stato dei concorrenti imperialismi ci impone di scegliere una collocazione la più conforme alla nostra cultura. La domanda che ci si pone è se rimanere nella Unione europea ovvero prospettarne una uscita, come suggerito dal sovranismo dilagante, che trova nell’opinione pubblica diffuse adesioni anche a causa della crescente delusione verso gli sviluppi della politica europeista.
Le alternative che si pongono sono quindi tra il rimanere nell’Unione Europea o uscirne; ma per andare dove? Rimanere un paese isolato, con una economia non connessa che compete con economie organizzate a livello continentale? Un paese che non potrebbe che essere organizzato in senso autarchico, o alla ricerca di nuovi partners cui offrirsi, o essere oggetto di politiche imperialistiche da parte delle potenze continentali?
Il crollo della domanda internazionale conseguente al corona virus, porterà ad un inasprimento delle relazioni economiche tra le potenze continentali, si inaspriranno i dazi, le pratiche protezionistiche; sarebbe assurdo essere soli ed isolati in questa prospettiva.
ALTERNATIVE PER L’EUROPA
Se la scelta che facciamo guarda all’Europa dobbiamo riflettere sulla crescente delusione rispetto a questa istituzione, anche se recentemente questa delusione ha avuto una lieve inversione di tendenza.
Non si può, tuttavia, sottacere la seria preoccupazione per la recente sentenza della Corte costituzionale tedesca che, ha sfidato la corte di Giustizia Europea dopo averla accusata di aver deliberato con leggerezza; ha imposto alla BCE di rendicontare, entro un termine fisso, sul suo operato; ha imposto al governo tedesco di rivedere i suoi criteri di valutazione dell’operato della BCE; ed ha obbligato la Bundesbank a non acquistare più titoli su indicazione della BCE e a rivendere quelli eventualmente già acquistati. Questa sentenza mette in serio dubbio la possibilità che questa unione possa andare ancora avanti.
Certo la proposta del Next Generation Eu e la recente decisione della BCE di rafforzare il Pandemic Emergency Purchase Plan sono una sfida alle pretese della Corte di Karlsruhe, ma proprio in quanto sfide, non fanno prevedere un rasserenamento per le prossime scadenze del 3 luglio e del 5 agosto.
Il Next Generation Eu pare una evoluzione, anche inattesa, della politica finora seguita dalla Commissione, abbandonando una filosofia austera per una più solidale; e ciò rimane vero anche se nell’iter approvativo la proposta potrà subire variazioni.
La decisione della BCE di rafforzare di altri 600 miliardi il suo piano di acquisti pandemico tranquillizza il nostro spread e ci fa sperare di poter superare questo difficile momento.
Ciò non toglie che ci siano molti punti, inseriti nei trattati sottoscritti, che ci pongono seri punti di domanda, costituendo alternative su cui optare. Pensiamo ad una grande iniziativa dei partiti socialisti europei che si facciano carico di proporre un pacchetto di riforme ai trattati, capaci di correggere le anomalie riscontrate e rilanciare un modello più economicamente congruo. Pensiamo:
Al General surplus recycling mechanism, ovvero di come gestire i surplus dei vari paesi in modo da puntare all’obiettivo di un pareggio nei saldi commerciali di tutti i paesi dell’Unione, mentre il limite del 6% non solo è molto elevato ma ciononostante è anche ampliamente e costantemente disatteso. Ora non è difficile immaginare che a paesi costantemente in avanzo corrispondano paesi costantemente in disavanzo e questi ultimi, prima o poi, non saranno in grado di sostenere saldi negativi cumulati, entrando quindi in crisi e dovendo così ricorrere al MES per ridiventare solvibili e ripagare i debiti commerciali. Quindi il Mes è funzionale all’atteggiamento mercantilistico della Germania e ne perpetua la pratica. Al contrario operando a monte, a prevenire bilance commerciali strutturalmente sbilanciate, sia nell’attivo che nel passivo, si opera per una convergenza nei fondamentali che eviti di dover ricorrere strumenti come il Mes che distribuiscono su tutti i paesi dell’Unione i costi delle pratiche imperialistiche della Germania. Ecco un vero caso di economia di trasferimento ammantato da solidarismo mutuale. Certo una moneta come il “bancor” keynesiano sarebbe stato strumento più adeguato che non i cambi fissi dell’euro.
All’eliminazione del fiscal dumping. E’ auspicabile che la concorrenza non sia minata da comportamenti di scorretta concorrenza basata su agevolazioni fiscali finalizzate ad attrarre iniziative di altri stati; serve una imposizione societaria comune a livello di unione europea. La completa libera circolazione dei capitali dovrebbe essere indirizzata ad una maggior profittabilità degli investimenti senza interferenze di carattere fiscale.
Mutualizzazione del debito dei paesi partecipanti che senza addossare ad un altro paese il debito proprio, punti a sfruttare l’istituto Europa come istituzione con rating tripla A, facendo in modo che ogni paese dell’unione goda di questo rating evitando una discriminazione a livello di spread, di collateral discrimination. L’unificazione dello status di ogni paese, che non danneggi nessun partecipante, ma che permetta ad ogni paese di godere dei vantaggi di una unione è un obiettivo che va perseguito.
Ovviamente il fatto che la BCE non sia una banca di ultima istanza, comporta che il modello europeo sia decisamente imparagonabile con il modello statunitense della FED. Che la banca europea debba ricorre a invenzioni creative come il Q.E. , frutto ai limiti del lecito del genio draghiano, per perseguire politiche esplicitamente federali, è una ipocrisia evidente, sulla quale la corte di Karlsruhe sta giocando una partita che può essere letale per i 70 anni della storia dell’Europa.
Un elemento che mi pare di rilevante importanza è la svolta che si intravvede dopo il fallimento della fusione Siemens-Almstom; si nota infatti una tendenza, in più punti evidenziata, di superare i compiti della commissione per la concorrenza e per gli aiuti di stato nel senso di puntare a CAMPIONI EUROPEI, ovvero multinazionali europee capaci di competere ai tempi degli imperialismi continentali. Chiaramente la fusione FCA-Peugeot costituirebbe uno di questi campioni europei e sapendo che lo stato francese ha una partecipazione in Peugeot non sarebbe azzardato, in questa prospettiva, pensare che il prestito di 6 miliardi richiesto con garanzia statale da FCA sia tramutato in partecipazione azionaria nella stessa, per essere su un pari livello dello stato francese nella nascita del nuovo campione. Lo stesso dicasi per una ILVA liberata dai franco-indiani che, come dice Timmermans, potrebbe diventare un campione europeo dell’acciaio all’idrogeno, similmente si pensi a Fincantieri etc.
Impossibile sottacere i passi rappresentati dal New Generation Europe e dal Pandemic Emergency Purchase Plan PEPP l’uno recentemente proposto dalla commisione europea, l’altro deciso dal direttivo della BCE. Si notano sviluppi nella filosofia delle due istituzioni che fanno sperare in un diverso approccio alle politiche monetarie e fiscali che tendano se non ad un solidarismo ad un più realistico “sovranismo intelligente”. Rimane comunque fondamentale, al di là della questione del fondo perduto e dell’importo riservato all’Italia, il come utilizzare quei soldi, argomento principe che ci rimanda al “Piano Colao” che affronterò, con altri argomenti nel punto successivo. Rimane comunque preliminare che se dovesse passare la linea DiMaio che indica di usare quei soldi per ridurre le imposte, mi associerei al prof. Giovanni Dosi del Sant’Anna di Pisa con la battuta “se si usano i soldi per ridurre le tasse, allora mi associo agli olandesi e chiederei di non darci un euro”.
Va rilevato che i miliardi del Next Generation Eu se arriveranno, arriveranno nel 2021 per cui ci sono da sei mesi a un anno di carenza di fondi per attuare quelle riforme che si volessero mettere in cantiere. Una alternativa che ci si pone è quella di utilizzare in questo preziosissimo buco temporale lo strumento dei Certificati di Compensazione Fiscale che, non costituendo debito, possono essere utilizzati per finanziare opere pubbliche produttive ad alto moltiplicatore keynesiano, specie nel mezzogiorno. Sul tema abbiamo tenuto una conferenza a Perugia con Stefano Sylos Labini, ai cui lavori rimando.
Un ultimo punto su cui dare un orientamento è quello della distinzione delle spese correnti dalle spese per investimenti, penso naturalmente alla Golden Rules di Jaques Delors, distinzione che diventi strutturale sia nella legislazione italiana rivedendo in tal senso l’art. 81 della Costituzione, sia, a livello europeo, nella costruzione di una legge di stabilità e sviluppo più strutturalmente congruente con una politica che tenda alla convergenza dei fondamentali di tutti i paesi.
ALTERNATIVE PER L’ITALIA
Per affrontare questo tema dobbiamo, preliminarmente, fare alcune considerazioni:
L’Italia è il paese che in dieci anni è andata in recessione ben 4 volte, un primato poco invidiabile;
L’Italia è un paese che dal 1992 registra un risparmio primario, e un debito crescente
L’Italia è il paese in cui i salari reali sono fermi da 28 anni
L’Italia è il paese in cui la produttività cresce molto meno che negli altri paesi europei
L’Italia negli anni 80 vedeva crescere il PIL del 40% in dieci anni, del 25% negli anni 90, negli anni 2000 il Pil sta diminuendo
L’Italia è il paese in cui il costo del lavoro è tra i più bassi in Europa ma il costo del lavoro per unità di prodotto è tra i più alti
L’Italia è il paese che ogni anno genera da una parte debito e dall’altra disuguaglianza
L’indice Gini aumenta nonostante il reddito di cittadinanza
L’Italia è il paese con il record di evasione fiscale
Il nanismo industriale italiano erede dell’obsoleto “piccolo è bello” è il vero problema italiano ed è terreno fertile per Salvini
Quindi cogliere l’opportunità, se ci sarà, dei fondi europei della Next Generation Eu per riproporre il paese com’era prima è suicidio politico ed economico.
Il piano Colao
Il piano Colao manca di un elemento essenziale, la Pianificazione, ovvero la iniziativa statale di guidare il paese al di fuori del business as usual che ha contraddistinto i decenni passati. Lo Stato nel piano Colao è presente solo come erogatore di agevolazioni fiscali, di soldi dei contribuenti a quelle imprese che accettassero di intraprendere attività indicate dal piano nelle modalità suggerite dal piano stesso. Il ragionamento è dunque: “secondo me, Stato, servirebbe questo, se tu impresa ti incammini per questa strada io Stato ti regalo questi soldi.”
Ma questo ragionamento è perverso; infatti mentre sono convinto che sia necessario, anzi indispensabile dare aiuti anche sostanziosi alle imprese per impostare un nuovo modo di fare impresa in Italia, sono altrettanto convinto che il discorso vada rovesciato; ovvero lo Stato dice alle imprese “io vorrei che la produzione andasse verso questi obiettivi, se sei d’accordo io Stato entro nel capitale della tua impresa e insieme percorriamo la strada, io, Stato, con i soldi dei contribuenti, divento socio a tutti gli effetti della tua impresa e come tutti i soci ho diritto ad entrare nel cda, se ho i voti sufficienti, e a riscuotere il dividendo deliberato. I soldi dei contribuenti non sono regalati all’impresa, o meglio regalati al capitale (vedasi più sotto nota al proposito), ma sono un investimento che la collettività fa in una iniziativa in cui crede, e come investimento ho diritto a tutte le prerogative che un investitore qualsiasi ha”.
Il contribuente già si fa carico di tutti i crediti di imposta di natura risrcitoria (fitti, perdite, sanificazioni, aumenti capitale, etc) previsti dal decreto “Rilancio”, e si fa carico delle purtroppo numerose insolvenze sui crediti garantiti dallo Stato che andranno in default, non è possibile che si istituzionalizzi in modo sguaiato la filosofia liberista del “privatizzare i profitti e socializzare le perdite”, occorre tutelare i contribuenti e puntare a che gli aiuti alle imprese diventino investimenti, partecipazioni dello Stato nelle imprese.
Le partecipazioni dello Stato nelle imprese preludono ad una politica di programmazione tesa alla produzione di beni d’uso (quanto bisogno ne abbiamo sentito durante la crisi coronavirus tra sanità, mascherine, istruzione etc.) piuttosto che beni di scambio, con doveroso riferimento a quanto scriveva a suo tempo Riccardo Lombardi.
I proventi derivanti dalle partecipazioni , servono per finanziare un fondo destinato al welfare o al reddito di cittadinanza, rinverdendo le motivazioni del piano Meidner.
La finalità della nostra politica si può quindi riassumere in tre obiettivi:
Avere uno Stato programmatore.
Utilizzare i dividendi per finanziare un fondo per il welfare o il reddito di cittadinanza
Cominciare a parlare dell’art. 46 della Costituzione, iniziando ad attuare la collaborazione alla gestione d’impresa.
Gli aiuti di Stato possono essere facilmente trasformati in partecipazioni azionarie nelle S.p.A. e penso che la rinascita di una economia mista come ai migliori tempi dell’IRI (ma non penso per nulla alla GEPI) possa oggi rilanciare una alleanza, anche se competitiva, tra mondo del lavoro e imprenditori. Personalmente ritengo che certi imprenditori “schumpeteriani” (e non penso certo a Bonomi) appartengano più al mondo del lavoro di quanto ricoprano il ruolo di prolungamento della mano del capitale, e che su molte scelte imprenditoriali essi siano oggettivamente in contrasto, in contraddizione con un capitale che sempre più è attratto dalle sirene della finanza privilegiando gli investimenti in questa attività che non in quella produttiva. Capisco che in un sistema “familistico” come quello italiano il discorso sia di difficile condivisione, ritengo tuttavia che lavorare su questa contraddizione sia una opprtunità da non lasciarsi sfuggire.
Mi rendo conto che il discorso partecipativo sopra delineato è inattuabile nel caso delle s.r.l., delle società di persone, delle imprese individuali etc.
Per questo tipo di imprese la mia idea è la seguente. In sede di dichiarazione dei redditi, una sezione deve essere dedicata alla sintesi di tutti i contributi, sussidi, agevolazioni fiscali, crediti d’imposta e quant’altro lo Stato abbia erogato, al fine di determinare il capitale che lo Stato ha investito nel soggetto dichiarante; tale importo rapportato al netto patrimoniale dell’impresa, serve a calcolare il dividendo che spetterebbe allo Stato grazie al capitale effettivamente versato anche se non formalizzatosi come tale. Tale dividendo viene trattenuto ai soci o titolari di impresa come ritenuta sugli utili maturati o deliberati e quindi viene versato allo Stato. In tal caso lo Stato rinuncerebbe ad esercitare i suoi diritti di socio nella gestione dell’impresa, ma si riserverebbe, sotto forma di imposta a carico dei soci, il suo diritto al dividendo (eventualmente anche alla partecipazione alla perdita).
Al di là dei tecnicismi, ritengo sia importante che si imbocchi una strada lastricata di programmazione e di partecipazione. Dopo decenni in cui l’art. 46 della Costituzione non ha trovato applicazione, dopo i vari tentativi non riusciti di dare uno sbocco concreto alla collaborazione aziendale, si ripresenta l’occasione di avviare una nuova fase, anche a seguito dell’ormai convergenza tra forze politiche e sindcali.
Il nanismo aziendale e la rivoluzione 4.0 La filosofia del “piccolo è bello” ci ha lasciati con una struttura industriale che, salvo le dovute eccezioni di quelle imprese che innovano ed esportano, è la responsabile della stagnazione trentennale in cui viviamo, interrotta da drastiche recessioni. Ci troviamo di fronte a due fenomeni: il nanismo aziendale e la rivoluzione 4.0. Il nanismo non ha le dimensioni sufficienti per introdurre le innovazioni che la rivoluzione 4.0 richiede, occorre allora puntare all’aggregazione di piccole imprese, ricorrendo forse all’IOT, per uscire da un modo di produzione che non può che essere basato sullo sfruttamento del lavoro. Il costo del lavoro è in Italia ben più basso che nei paesi europei concorrenti; esso si aggira sui 41.000€ in Italia, mentre sta sui 62.000 in Germania e sui 50.000 in Francia. Tuttavia il costo del lavoro per unità di prodotto, che rappresenta il rapporto Costo del lavoro/Produttività, ha avuto negli anni 2000 l’andamento del grafico seguente:
l’incremento alla base della crescita italiana deriva dalla produttività stagnante da trent’anni in Italia mentre altrove essa cresce anche grazie ad una più diffusa rivoluzione 4.0. Ma a fronte di una produttività che cresce in modo molto ridotto, ovvero del solo 16,6% nel periodo 1992-2018, nello stesso periodo, i salari reali salgono del solo 8,1%, violando quindi una golden rule che lega aumento salariale ad aumento della produttività. A prezzi correnti quella discrasia vale circa 60 miliardi di euro che sono andati al capitale piuttosto che ai salari.
Pare quindi ovvio che un mutamento strutturale su questo fronte debba essere una delle alternative su cui confrontarci. Ma voglio fare una digressione storica. Recentemente si è celebrato il cinquantesimo dello Statuto dei lavoratori. Senza voler fare polemiche, mi sorge il dubbio che ci sia una certa connessione causale tra nanismo imprenditoriale e limite dei 15 dipendenti per l’applicazione delle norme dello Statuto. Molte imprese quando superano il numero dei 15 dipendenti, se per esempio ne servono 20, esse preferiscono far nascere una nuova impresa in modo da averne due da 10 dipendenti ciascuna per cui non si applicano norme statutarie. Il necessario ricorso alla cassa integrazione in deroga, nella attuale crisi da coronavirus, testimonia l’inadeguatezza delle norme valide solo sopra i 15 dipendenti.
Per quanto riguarda la rivoluzione 4.0, ogni iniziativa presa dallo Stato per incentivare digitalizzazione, robotizzazione, innovazione è ben accetta sempre però conformemente a quanto detto al punto precedente, ovvero l’intervento non è un regalo, non è una agevolazione fiscale ma una compartecipazione al capitale o agli utili aziendali. La minor occupazione eventualmente generata dalle innovazioni va tutelata rafforzando il reddito di cittadinanza. Sul tema i documenti della convention di Rimini sono ampliamente documentati.
Il fisco
Troppe volte, ultimamente, si è abbandonato il principio costituzionale della progressività per sbarcare sulla tassa fissa. Ritengo che questo sia un errore e che sia una presa in giro sostenere che la tassa fissa, con un’area di no-tax, ricrei una progressività che rispetta il principio costituzionale. La flat tax per essere attraente promette meno tasse per tutti, ma in realtà fa pagare meno tasse soprattutto ai ricchi e nel contempo crea perdita di gettito.
C’è al contrario da chiedersi se non sia un’alternativa quella di eliminare tutte quelle tasse che vanno a colpire i fattori della produzione, invece di tassare l’utile derivante dalla vendita del prodotto finito; tassare i fattori della produzione incide sui costi di produzione e inficia la competitività del sistema produttivo.
Viviamo in un sistema che da anni da una parte produce debito pubblico e dall’altra accresce le disuguaglianze, per interrompere questo trend esiste l’alternativa di una imposizione patrimoniale che incida poco sul livello dei consumi. L’imposta patrimoniale, come quella sulle successioni praticamente inesistente nel nostro paese, potrebbe raggiungere tre obiettivi:
ridurre il debito pubblico;
ridurre le disuguaglianze misurate dall’indice Gini;
dare agli investitori la sensazione che realmente vogliamo incidere sul nostro peggior parametro finanziario, aumentare la fiducia, diminuire il fattore di rischio e quindi lo spread.
La riduzione dell’IVA
La riduzione, temporanea o meno, delle aliquote IVA (quali? Quella al 4% o quella al 22? Aumentare quella sui beni di lusso?) può essere una strada da percorrere per incentivare i consumi e quindi, forse, la produzione. Non esistono interventi buoni di per sè, occorre giudicarli nel contesto. Se la riduzione dell’IVA incentiva i consumi, occorre porre attenzione a quali consumi sono incentivati, guai se incentivassero beni di importazione. Il bonus bici ha fatto esplodere l’acquisto di monopattini elettrici che, ecco la controindicazione, sono importati dalla Cina. Comunque va anche fatto il conteggio di quale moltiplicatore mette in moto la riduione dell’IVA e raffrontarlo con il moltoplicatore messo in moto da un investimento produttivo ad esempio nel Sud del Paese.
Perchè le agevolazioni fiscali premiano il capitale
L’imposta sui redditi delle persone giuridiche, una volta IRPEG oggi IRES, è nata come una imposta d’acconto sull’imposizione degli utili distribuiti ma successivamente ha cominciato a perdere questa caratteristica; riscuotere un acconto permetteva all’erario di incassare anzitempo almeno parte dell’imposizione.
Prima della riforma Tremonti la società versava un acconto sull’utile lordo imponibile, mentre al momento della distribuzione del dividendo si calcolava l’imposta progressiva sullo stesso utile lordo imponibile e si sottraeva quanto già anticipato.
Dopo la riforma Tremonti, la società pagava un’imposta sull’utile lordo imponibile, mentre al momento della distribuzione del dividendo si calcolava l’imposta progressiva su una percentuale dell’utile societario imponibile e non si detraeva l’imposta pagata in acconto.
Oggi la società paga il 24% sull’utile lordo imponibile mentre al momento della distribuzione del dividendo si paga il 26% sul dividendo distribuito; per cui in caso di esenzione dall’imposta, derivante da agevolazione fiscale, non si paga la prima imposta ma solo la seconda. Facendo un esempio numerico sia l’imponibile societario pari a 100;
In casi normali la società paga il 24% su 100 e quindi sul dividendo di 76 (100-24) si paga il 26% ovvero 20. In totale il capitale paga 24+20 ovvero il 44% di imposte.
In caso di agevolazione fiscale la società non paga l’Ires e quindi il dividendo sarà pari a 100 meno il 26% di imposta a carico del capitale; in totale quindi il capitale paga il solo 26% rispetto al 44%.
NOTA INTEGRATIVA ALLE ALTERNATIVE ECONOMICHE
A seguito della teleconferenza del 2 luglio scorso, penso di dover apportare le seguenti note, quali risultato dei vari interventi.
Certificati di Compensazione Fiscale. E’ il punto che ha sollevato maggiori domande e perplessità, Chiauzza ad esempio; ho già fatto pervenire la relazione della commissione della Camera al disegno di legge presentato dal M5S; ho segnalato le mie critiche a quel disegno di legge che privilegia “l’helicopter money” rispetto agli investimenti produttivi. Sono a disposizione di parecchia documentazione al proposito che potrò inoltrare su richiesta o far pubblicare direttamente sul sito. Il punto che vorrei sottolineare riguarda il lasso temporale tra oggi e il momento in cui verranno, se verranno, erogati i fondi del Next Generation Eu, ovvero tra sei mesi un anno. In questo lasso temporale sembrano indispensabili i CCF per far ripartire quanto prima l’economia stagnante.
Il compagno Lotito ha sostanzialmente condiviso il documento in particolare per quel che riguarda la patrimoniale, la partecipazione in FCA e nell’ex ILVA. Sottolinea l’importanza del debito pubblico che costituisce un effettivo punto debole del nostro paese. Questo fatto è innegabile anche se occorre saper rispondere ai nostri critici frugali utilizzando anche altri parametri: per esempio il debito implicito (che include garanzie concesse, peso del sistema pensionistico futuro ed altre contingent liabilities) che ci vede, al contrario, in una posizione migliore di Germania e Olanda.
Ma il tasso debito/PIL non può essere abbattuto con l’austerità, agendo cioè sul solo numeratore; questi 28 anni sono lì a dimostrarlo, occorre puntare di più, come sostiene Veronese, sul denominatore ovvero sulla produttività e sull’incremento del PIL agendo anche su un recupero dell’area del sommerso.
La compagna Cinti Luciani nel sottolineare il cambiamento dell’orientamento della governance europea, grazie alle nuove posizioni prese dalla Germania, ha evidenziato che la crisi ha reso necessario un nuovo indirizzo che guardi con maggior interesse alla solidarietà. Correttamente ha precisato che i CCF funzionano solo se circolano, se sono cioè accettati dagli imprenditori nel biennio di latenza.
L’importanza di una politica verso il meridione è stata sollevata dal compagno Artali, sottolineando l’importanza di una volontà politica che sia a livello europeo che a livello nazionale vede l’indispensabile formazione di un soggetto socialista in grado di trasformare il confronto tra i paesi, in un confronto politico delle classi nei vari paesi.
Importanza della politica ribadita dal compagno Anastasio che indica l’importanza dei punti della relazione relativi al nanismo imprenditoriale, all’attuazione della cogestione ex art. 46 della costituzione, alla lotta all’evasione fiscale. Si sottolinea la formazione continua come elemento comune tra documento sull’economia e quello (in preparazione) sulla scuola. A proposito del piano Meidner, citato nella relazione, richiede chiarimenti.
Il piano Meidner famoso piano svedese ai tempi di Olof Palme, tendeva ad un progressivo intervento dello stato nell’azionariato delle imprese alfine di cogestire le imprese, ricavare dividendi per finanziare un fondo sociale, avere più potere programmatorio. Ora quel piano non si è attuato se non in limitata parte, ma la rivoluzione incipiente nel modo di produzione, la rivoluzione 4.0 non potrà non comportare mutamenti enormi nel mondo del lavoro; lo sfruttamento sarà sempre più uno sfruttamento dei cervelli ed avrà dimensioni che faranno sembrare miserevole lo sfruttamento del lavoro fisico (Grundrisse di K.Marx).
I profitti si baseranno sempre più sulla conoscenza e sull’intelligenza dei lavoratori, la produttività conseguente è sempre più frutto della conoscenza che si badi è frutto dell’investimento sociale dello stato nella scuola, università, centri di ricerca, ricercatori etc. insomma un bene comune. Il capitale sfrutta così un bene comune e se ne appropria, avidamente, espellendo dal mondo del lavoro dapprima i lavoratori meno qualificati e poi man mano anche i più qualificati arrivando a sostituire i programmatori con computers auto-apprendenti in grado di generare robots sempre più avanzati. Nell’ottica di questa rivoluzione ecco che la partecipazione dello stato nelle imprese dà allo stato quel potere con cui programmare il passaggio ad un nuovo sostanzialmente diverso “modo di produzione”.
O la tecnologia e la robotizzazione sono dominio pubblico o lasciare al privato l’esclusiva del nuovo modo di produzione può portare ad una nuova barbarie. In fondo oltre che rifarsi a Marx, val la pena di guardare a quanto scrive il Nobel James Meade in “Efficiency, equality and partnership of ownership” o ai più recenti “Lo stato innovatore” e “Il valore di tutto” di Mariana Mazzucato.

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