di Renato Costanzo Gatti |

In margine al documento del CSU (Comitato Unità Socialista)

Premessa

Il meccanismo che si trova alla base dell’evoluzione sociale, scandita da diversi modi di produzione, è nella contraddizione tra forze e forme di sviluppo: i rapporti produttivi fino ad un certo punto sono confacenti allo sviluppo delle forze produttive, ma questi rapporti si cristallizzano e si sedimentano in forme specifiche, le quali non stando dietro automaticamente all’ulteriore sviluppo delle forze produttive stesse, ne diventano un freno. Per questo motivo i rapporti di produzione e di proprietà sono adeguati e funzionali allo sviluppo delle forze produttive solo in una prima fase, per diventare poi delle vere e proprie catene per l’ulteriore progresso delle stesse (La contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione 31/07/2019 Prospettiva Marxista).

Gli sviluppi delle forze produttive

Il sistema economico, con le evidenti sintomatologie rappresentate dalle ricorrenti crisi, ci manda segnali sempre più evidenti di scollamenti e contraddizioni che possono preludere ad una necessaria rivoluzione sovrastrutturale la cui direzione e guida dipende dalla capacità egemonica delle forze sociali in campo; ancora una volta capitale e lavoro con un ruolo centrale dello stato. Cercando di evitar di cadere nel meccanicismo volgare, esaminiamo quei mutamenti che più di altri incidono sul modo di produzione.

La rivoluzione 4.0

Indubbiamente lo sviluppo tecnologico negli ultimi decenni si è sviluppato in modo sempre più accelerato. Le fordiane catene di montaggio sono state sostituite dai robots; negli anni a venire milioni di posti di lavoro verranno eliminti, sostituiti, forse, da altre forme di lavoro che richiederanno però ben altra formazione professionale; la formazione digitale dei nuovi lavoratori sarà indispensabile almeno fino a quando non si arriverà a robots intelligenti in grado di programmare e realizzare robots di nuova generazione. La robotizzazione eliminerà posti di lavoro, ma permetterà al paese di essere presente nella divisione internazionale del lavoro, presenza che perderemmo fatalmente se continuassimo con una economia fondata sul basso costo della mano d’opera. Bene fa il documento del CUS a ricordarci che :” All’inizio degli anni ‘80 il peso dei redditi da lavoro rappresentava il 62% della ricchezza totale. Oggi quel valore è sceso al 44%.”

Il traguardo è una società senza lavoro dove i robots producono un PIL anche maggiore di quello attuale, presentando un problema enorme sul fronte della redistribuzione di quanto si è prodotto. Tema imponente affrontato da Marx, da Sylos Labini, dal Nobel James Meade. Sfida che è già in corso da cui emerge la forza egemone alla guida di questa trasformazione. L’alternativa è: socialismo o barbarie. Le barbarie sembrano essere in vantaggio.

Il telelavoro

La crisi causata dal Covid 19 oltre ad aver esasperato il dramma del 2007, ha fatto emergere una mutazione strutturale rappresentata dal telelavoro. Moltissimi lavori, grazie all’informatica e ad internet possono essere svolti da casa, connessi in rete, rivoluzionando il modo di lavorare. Eravamo passati dagli uffici angusti e personalizzati alla comunità dell’open space; siamo ora passati ad una gestione responsabile autogestita dal lavoratore che lavora da casa pur potendo, quando necessita poter operare in rete. Non potendo controllare il tempo di lavoro, autogestito dal singolo lavoratore, si sposterà la valutazione del lavoratore sui risultati acquisiti; una diffusione del cottimo che reclama una contrattazione che i sindacati rivendicano. La nuova forma di lavoro mette in crisi le aspettative di chi ha investito in immobili per uffici, così come muta le aspettative di bar e ristoranti che fornivano il pasto del mezzodì.

Le vendite on-line

Un’altra rivoluzione accelerata dalla crisi Covid, è quella della vendita on-line esaltata dai risultati di Amazon e imprese similari, che spingono molti negozi gravati da: affitto dei locali, costo delle commesse, crollo della mobilità dell’abituale clientela come da quella occasionale porta dal turismo; a riconsiderare la continuazione dell’attività, stante l’ormai consolidato mutamento di fare la spesa che continuerà anche alla auspicata fine della pandemia.

L’invecchiamento della popolazione

Ogni anno in Italia muoiono 150.000 persone più di quante ne nascano. La popolazione, senza considerare gli immigrati, ma anche senza considerare quelli che lasciano il paese per trovare lidi migliori, si riduce e invecchia. Ciò peggiora le condizioni per la fertilità del paese e cambia in modo importante il rapporto tra lavoratori pensionati e quelli attivi. Se fino a pochi anni addietro avevamo 3 attivi per ogni pensionato, ci stiamo avviando al rapporto uno a uno. Il lavoro di un lavoratore attivo sarà gravato in modo significativo dall’onere pensionistico. Anche se il rapporto è stato facilitato dal passaggio dal retributivo al contributivo, l’aver scelto tanti anni fa il sistema a ripartizione anziché quello ad accumulazione, oltre a metterci in difficoltà quando la base attiva diminuisce, ci ha privato di un investitore istituzionle (la pension fund) che in molti altri paesi costituisce una fonte di stabilità e sviluppo interni. Questo invecchiamento, pur non potendo essere considerato un mutamento dei fattori produttivi, incide in modo non negligibile sul futuro del nostro paese.

Ruolo dello stato

Lo slogan “meno stato più mercato” si sta dimostrando sempre più obsoleto e contradditorio. La rivoluzione schumpeteriana che domina la divisione internazionale del lavoro, ci mostra che economie continentali, in primis Cina ed USA (ed in modo disorganico e disordinato l’Europa) lasciano il mercato ad operare in superficie, mentre la vera battaglia commerciale basata sullo sviluppo della scienza e delle nuove tecnologie viene svolto dagli stati protagonisti dell’innovazione. Le lotte per il 5G, per le nanotecnologie, per i microprocessori, per la fusione nucleare, per i computer quantistici etc. richiedono quei “capitali pazienti” che il mercato e i capital venture non sono in grado di offrire e per l’ingenza degli investimenti e per l’alto rischio di insuccesso e per i lunghi tempi di pay back. Solo gli stati (e alcune multinazionali che hanno bilanci simili a quelli degli stati) possono investire nell’innovazione futura e nelle tecnologie e nelle innovazioni che sono il vero e concreto campo di battaglia per la divisione internazionale del lavoro, altro che il mercato. I fondi sono degli stati, della difesa, dei ministeri per l’energia: la vera economia viene fatta dalla programmazione statale lasciando ai mercati l’illusione di essere determinanti. Attenzione anche in passato lo stato è stato determinante per l’innovazione della potenza industriale, pensiamo allo sviluppo delle ferrovie, gli enormi investimenti nelle autostrade che hanno avvicinato le distanze ma nel contempo hanno fornito un sussidio concreto alla Fiat per la produzione di auto.

I mutamenti sovrastrutturali

Tutte i mutamenti e movimenti nei fattori produttivi sopra esemplicativamente elencati, rappresentano fasi di un passaggio storico, una transizione da un’economia manifatturiera ad un’economia digitale della conoscenza, caratterizzata dalla capacità di produrre e udare il capitale umano per produrre e sfruttare la conoscenza come bene economico. In tale transizione i mutamenti strutturali entrano in contraddizione con gli aspetti sovrastrutturali che, disegnati per altri modi di produzione, diventano ostacolo al nuovo che avanza. C’è da chiedersi se la legislazione sulla proprietà privata oggi vigente, pur finalizzata ai fini sociali come richiesto dall’art. 46 della Costituzione, sia ancora adeguata a gestire la robotizzazione, l’espulsione di lavoratori dal mondo del lavoro imboccando così la strada verso situazioni proprietarie accentrate e paventate dal Nobel James Meade. C’è da chiedersi se il sistema fiscale che finanzia le spese e gli investimenti peraltro sempre più necessari in R&S e infrastrutture, alla fine non risulti essere un trasferimento netto dai contribuenti al capitale senza prospettare una socializzazione dei risultati di quelle attività statali.

In fondo Keynes ha insegnato al capitalismo ad usare lo stato per risolvere le sue contraddizioni, ha insegnato a rendere marginale lo sfruttamento del lavoratore manuale optando per lo sfruttamento del cervello dei lavoratori digitali ed infine a privatizzare gli investimenti pubblici ovvero dei contribuenti nell’innovazione schumpeteriana.

La consapevolezza di queste problematiche e di questi meccanismi, dovrebbe spingere i socialisti ad essere protagonisti egemoni nel governo, capaci di coniugare i nuovi elementi dell’economia della conoscenza con un progetto politico che si sollevi dalla sola ricerca di mantenimento del welfare, ma punti a essere dirigente economico globale del nuovo processo produttivo, del nuovo modo di produzione.